Pace

Silenzi chiusi in scrigni di ebano.

Le lettere che non ti ho mandato sono pezzi di carta bruciati nel vento. Parole a vanvera.

Te la sei presa col tempo, quell’infame.

Ogni granello di sabbia di questa tua clessidra sembrava avere il peso di un macigno. L’hai portato sulle spalle finché hai potuto.

Non ci resta che guardare il paesaggio, arso, di questa stagione. E adesso che siamo divisi, lontani, resti tu a seminare vento ed io a raccogliere tempesta.

Mi sono rotta le palle

Mi sono rotta le palle delle mascherine, FFP2, 3, 4, filtra all’80 al 90, al 99,999%, in tessuto sì, o forse no, meglio una sotto e una sopra, meglio quella trasparente, si vede il sorriso che poi che mi ridi?
Mi sono rotta le palle dei vaccini sì, vaccini no, degli antivax. Prima i vecchissimi, poi ad aprile quelli vecchi, a giugno i meno vecchi, protegge dalle varianti, no, non protegge, da quella sudafricana sì, quella brasiliana no, quella inglese? Boh
Mi sono rotta le palle dei controlli alle frontiere, la dogana, le file all’aeroporto, quello vuole il passaporto vaccinale, questo no, si parte! No, non si parte, statt’ a cas’
Mi sono rotta le palle dei test, il molecolare, l’antigenico, il sierologico, parti con quello rapido, torna con quello molecolare, calcola base per altezza diviso due, il risultato moltiplicalo per il numero del mese di nascita di tua nonna, dividi per i capelli che ti sono caduti, quella sarà la durata di validità del test. Fa male, no non fa male, solletica, no, va fino al cervello, no ma che cazz dici non è possibile, sì te lo giuro, da quando ho fatto il test mi si sono uniti gli emisferi
Mi sono rotta le palle del lockdown, oggi si esce dalle 6 alle 18, domani a culi alterni, dalla 38 alla 44 i giorni pari, gli altri quelli dispari, oltre la 52 a casa perché soggetti a rischio
Mi sono rotta le palle dei virologi, gli immunologi, i politici, gli economisti, dobbiamo aprire!, no, voi siete pazzi, dovete chiudere!, crolla l’economia, l’economia si salva grazie ai miei ordini online nella pausa pranzo, adesso vedo se posso farmi arrivare un po’ di acqua di mare e sabbia per le vacanze
Mi sono rotta le palle della gente, la mascherina sotto il naso, sopra gli occhiali, sotto il mento, tra gli occhi e il mento, 2 mascherine, no 3, più la visiera, pinne, fucile e gli occhiali
Mi sono rotta le palle della vita online, dei video demmmerda di instagram, dei post inutili, pure i cani mi hanno rotto le palle, no i cani no, neanche i gatti, checcariiini
Pronto? La neuro? Sì, potete passare anche subito.

L’estate deve ancora arrivare.

I giorni sono sempre più corti, proprio come i tuoi capelli, che non smetti di tagliare.

Se chiudo gli occhi sento ancora il rumore del mare.

Infilo i piedi nella sabbia calda, morbida, alleata.

Non si capisce più nulla, forse anche la terra gira al contrario.

Io mi sono registrata gli accordi di questa estate arrivata a fine stagione. Il meglio sempre a fine pasto.

Ne ho assaggiato ogni portata e mi sono fatta avanti quando c’era da salire in scena. Sai, come dicono, bisogna esorcizzare le proprie paure.

Io ti ho affrontato settembre, ma invece di un nemico ho trovato un alleato. Calmo, docile, mi offri acque serene e cieli azzurri.

Poco importa quel che dicono di te, ti sta bene il blu. Lo porti con eleganza insieme a quelle notti senza luna.

C’era anche Marte. Quant’è lontano.

Quando il coronavirus…

Quando tutto questo sarà finito, nel nostro paese ci saranno moltissimi nonni in meno. Con loro si saranno spente altrettante storie di guerra e di fame, di paura del tifo, del colera e di malattie incurabili al tempo. Saranno scomparse ricette di impasti fatti “a occhio”, di quelle che non si tramandano mai per iscritto, col rischio di essere tacciati d’eresia. Si saranno spente anche le occasioni uniche di farsi tramandare il rito del malocchio e spariranno anche le caramelle dalle credenze e i pasti allietati da voci roche o squillanti provenienti da altri tempi. Quelle mani rugose, spaccate, dalle mille pieghette, non potranno più stringere tanti figli e nipoti, non potranno più dare pacche sulle spalle, né stringere forte i visi.

Quando tutto sarà finito, in migliaia di case calerà il silenzio, assordante, dell’assenza. Così, avremo perso non soltanto vite umane, ma pilastri della nostra storia, testimonianze ultime e uniche di un passato che saremo costretti a leggere soltanto sui libri, ma di cui ignoreremo una buona parte. Ad esempio, se mio nonno non me l’avesse raccontato, non avrei mai saputo che era sordo da un orecchio a causa di un ceffone che gli aveva tirato un soldato tedesco durante l’occupazione. Ebbene sì, c’è stata l’occupazione proprio a casa mia, in un piccolo e anonimo paesino di campagna. Così come non avrei mai avuto la stessa percezione della parola fame se l’altro mio nonno non mi avesse raccontato che durante la guerra era riuscito a mangiare per settimane intere solo uova crude, rubate qua e là. Pagine di storie locali strappate da libri che non potremo più aprire. È da tempo che a me è stato negato l’ingresso a quelle “biblioteche”, è da tempo che non posso più sfogliare il passato della nostra famiglia, ma mi sento fortunata ad avervi avuto accesso, anche se per non molto.

La storia, il passato, i racconti, questo ci rende ricchi. Ricchi oltre la crisi finanziaria e lo spread, oltre il calo delle borse e il prezzo del petrolio e ciò che più temo è che usciremo da questo tracollo sanitario molto più poveri perché estremamente più soli.

Il peso della farfalla

Tutto il tempo che è passato non ce lo siamo neanche raccontato. Nascosto nei luoghi della nostra intimità ci è scivolato addosso.

Sondiamo l’inesorabilità dei tramonti che ci si presentano e leggo sempre di più la rassegnazione nel tuo volto stanco e nelle notti insonni.

Quei giorni senza buio. Solo albe in letti scomodi e telefoni che non smettevano di squillare. E le bugie: le tue. L’odio vomitato in un canale, che a un certo punto ha rotto tutto e riversato anche le librerie.

E quelle bugie me le sono scritte addosso. Marchiate a fuoco su una pelle già irritata. Non me le dimentico, neanche una. Mai.

Moniti.

Non si vede, ma la sento.

In lontananza i lampi nel cielo mi ricordano quanto vulnerabile sia anche l’estate alla mercé di un pugno di nuvole.

E mentre gli vado incontro, aspetto che piova.

Le prime gocce cadono ed evaporano sull’asfalto ancora caldo, un brivido freddo corre sulla schiena quando toccano la pelle e l’odore della terra bagnata e dell’aria tutto intorno si fa forte nelle narici.

È Il monito dell’estate che ti ricorda l’inverno.

E tu non sei da nessuna parte e dappertutto. Nascosto nelle pieghe delle gonne plissée, nei tacchi alti della manager indaffarata che corre in ufficio, nei crop top della fashion victim di turno.

È il monito della banalità delle cose che apre una finestra sul burrone delle memorie.

Tu te ne freghi come la pioggia che rompe l’armonia dei giorni di sole e mentre aspetto il tuono dopo il lampo, mi dimentico che piove e sono senza ombrello.

Senza strappi.

Non ti preoccupare. È colpa mia, sono io che non ti ho visto cambiare.
In questi anni è stato normale trasformarsi, invecchiare. Ma ora che ti ritrovo con una sola ruga in più neanche ti riconosco.
Non so come chiamarti.
Eppure una volta era così semplice mescolarsi, scambiarsi. Che importava dirsi chi eravamo se io mi sentivo un po’ te? Se tu eri un po’ me?
Hai presente quelle lancette degli orologi delle stazioni che non si arrestano mai, neanche per un secondo? Ti stanno dicendo che non puoi fermarti, devi correre! A lavorare, a studiare, a mangiare, all’appuntamento, tornare a casa.
Ma sai cosa? Non me ne frega niente.
Io me ne sto qua. Anche se tu non torni, anche se la casa del vicino crolla, anche se piove e non ho l’ombrello, anche se domani è domenica, anche se è passato l’ultimo treno.

Tu non torni. Neanche io.

Passo e chiudo.

Quanti giorni passerò ancora dietro a una finestra a chiedermi se arrivi. Se alla fine non hai di nuovo cambiato idea.

E io resto con le mie poesie a pezzetti in una mano, mentre stringo nell’altra una rabbia che non passa.

Mi si stringe anche lo stomaco in questo freddo di dicembre e mi rassegno solo al fatto che le cose non cambiano. Che ti sei portato via tutto, anche quello che doveva rimanere in me.

Tante armi di difesa in questo mondo progredito e neanche uno scudo per gli stronzi.

Pelle.

Mi sciolgo, evapo, dissolvo.

Nessuna traccia di me resterà sui tuoi vestiti, né sulla giacca di pelle usurata all’altezza dei gomiti.

Mantengo il tuo sguardo: fisso, immobile. Mi guardi dentro. Sai che mento, come quella volta che ho detto « giuro ». Siamo fatti di menzogne e false promesse. Ci stringiamo le mani come per accordo, ma la stretta è dolorosa. 

Eppure sai che la pelle non mente. 

La pelle ricorda. Come quella volta che non ti sei occupato di lei qualche estate fa e continua a ricordarti gli errori, evidenziando al sole la stessa bruciatura. 

La pelle rievoca e riaccende le braci nascoste sotto la cenere. Le stesse con cui ti bruci la mattina di Natale pensando che il fuoco sia spento.

La pelle ricopre. Tessuti, capillari, ossa e nervi. Ricopre i miei sbagli e i tuoi. La ferita si rimargina anche quando non lo vuoi. E resta la cicatrice. 

Panta Rei.

Panta Rei, ti dico. 

Anche questo fiume, che sembra immobile, nasconde giorni di tormenta e notti insonni. 

Non lasciarti ingannare da questi ammaliatori sorridenti. Nei loro sguardi disonesti non c’è neanche un briciolo di sedicente felicità. 

Calpesto foglie croccanti, senti: è come mordere un salatino. Un corpo integro ridotto con un gesto in piccole piccolissime parti. E aspetto di addormentarmi, per guardarmi guardandoti, nel silenzio di un mattino grigio in cui la pioggia ha messo a tacere la città. 

Scivoli anche tu. Panta rei. Oppure no, fermati a mangiare, a prendere un caffè, o perché no? A dormire. Racconto belle storie da ubriaca. Basterà un bicchiere, vedrai.

E invece sì, panta rei. E te ne vai. Come le stagioni, come il sole dietro l’orizzonte. Da punto fisso, d’improvviso ti eclissi e non mi resta che un lontano bagliore.